Progetto: Matteotti e gli altri
Podcast: Rivoluzionari
Calssificazione: Contenuti adatti a tutti
Stagione: 3
Numero dell’episodio: 3
Tipo di episodio : Completo
Episodio 1 | Episodio 2 | Episodio 3 | Episodio 4 | Episodio 5 | Episodio 6 | Episodio 7 | Episodio 8 | Episodio 9 | Episodio 10 | Episodio 11 | Episodio 12
Intervista a Giacomo Matteotti e Gaetano Salvemini, uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, storico, educatore e docente, militante politico impegnato a rinnovare il Mezzogiorno d’Italia.
Un secolo fa le loro storie hanno viaggiato su binari paralleli, le loro vite si sono incrociate.
La loro unione ideale, paradossalmente, si rafforzò nel nome dell’antifascismo dopo la morte di Matteotti, nel 1924.
E noi partiremo proprio da quell’anno per approdare all’oggi, in un viaggio immaginario tra passato e futuro.
Podcast realizzato da FIAP con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione Anniversari Nazionali ed eventi sportivi nazionali ed internazionali. Scritto dallo storico Andrea Ricciardi, sceneggiato da Donatella Fiorella e Andrea Ricciardi, narrato da Edoardo Mininni, Vittorio Tosi, Donatella Fiorella e Dario Di Stano; con la produzione di Gabriele Beretta.
Roberta Cairoli
Giacomo Matteotti e Velia Titta
Non creda a tutte le mie tristezze e ai miei vagheggiamenti. Mi vengono infatti quando scrivo; ma non sono della mia vita. Essa è lotta, speranza, è ardente; e vorrei che fosse molteplice. Allora vorrei che una fosse per Lei, vicino a Lei. E i miei timori son solo perché quest’una è unica, e in Lei si perderebbe tutta. Ma non pensi male: presto ci rivedremo1 .
Così scriveva, il 21 agosto 1912 da Fratta Polesine, Giacomo Matteotti a Velia Titta. Si erano conosciuti quell’estate, a Boscolungo, una località di villeggiatura sull’Abetone. L’amore sbocciò rapidamente durante le lunghe passeggiate assieme e si nutrì immediatamente di un fitto rapporto epistolare, come attesta questa prima lettera che Giacomo scrisse da Fratta pochi giorni dopo il suo rientro. Lei aveva 22 anni, lui 27. All’epoca del loro primo incontro Matteotti era già un personaggio pubblico, militante del Partito socialista impegnato nell’attività amministrativa e sindacale nel Polesine, la sua terra d’origine, dove aveva toccato con mano la realtà di miseria e di sfruttamento dei braccianti. Uomo di grande cultura economica e giuridica, trascorreva per studio lunghi soggiorni all’estero. Conosceva il francese, l’inglese, il tedesco, amava l’arte, il teatro e la musica classica, passione – quella per la musica e per l’arte – che avrebbe condiviso con la futura moglie.
Velia fu “un’apparizione singolare” nella sua vita “che desta sentimenti tutti nuovi, tutti diversi”2 . Quando si conobbero Velia era già da tempo orfana della madre, Amabile Sequenza, donna austera e profondamente religiosa, e senza il padre, Oreste Titta, abile artefice del ferro, di idee anarchiche, che aveva abbandonato la famiglia per unirsi a un’altra donna. Ultima di sei fratelli – due maschi e quattro femmine – Velia, cresciuta con grande affetto dal fratello, il noto baritono in arte Titta Ruffo, fu educata in scuole e collegi religiosi, conseguendo il diploma alla scuola normale femminile di Pisa. Amante della letteratura, sia italiana che straniera, manifestò una precoce vocazione letteraria e artistica, giungendo a pubblicare nel 1906 una raccolta di poesie. E, nel1920, diede alle stampe con lo pseudonimo maschile di Andrea Rota, il romanzo L’Idolatra, che Giacomo si impegnò con sollecitudine a promuovere presso le più note riviste letterarie.
Il sentimento per Velia, precoce, inaspettato, intenso, lo sorprese tanto da esserne quasi intimorito, come già si coglie nei primi scambi epistolari, in cui i due giovani si misero a nudo, in un dialogo intimo e intimistico, quasi una sorta di confessione reciproca sui tormenti del proprio animo:
Ho paura, ho tanta paura, Velia cara! Di non saperLe voler bene, di non saperLa Amare, di dover passare nella sua vita come causa di male, proprio mentre vorrei portare a Lei tutta la felicità. Ho paura! Io mi conosco, o per meglio dire, conosco me nel passato, e dubito sempre di me. Ed ora più che mai: Lei non dovrebbe mai essere lontana da me.3
449 sono le lettere che Giacomo scrisse a Velia e 214 sono quelle di Velia a Giacomo, un corpus straordinario che copre l’intero arco cronologico della loro relazione – drammaticamente interrotta dall’assassinio di Matteotti il 10 giugno del 1924 – in cui pubblico e privato sono strettamente intrecciati: il fidanzamento (1912-1916), il matrimonio, celebrato in Campidoglio l’8 gennaio 1916, “il confino” siciliano durante il periodo bellico (luglio 1916-marzo 1919), il lavoro parlamentare di Giacomo dopo le elezioni politiche del novembre 1919, gli scontri politici e la violenza fascista. Nel caso di Giacomo e Velia, costretti a restare separati per lunghi periodi per l’attività politica di lui, la salute malferma e le difficili gravidanze di lei, a condurre una vita precaria e “sbandata” – come Velia sottolineerà più vote nella sua corrispondenza col marito – peregrinando tra Roma, Milano, Fratta e Varazze, senza mai rinunciare alla costante, incessante ricerca di una dimora comune, la relazione epistolare si fece relazione essa stessa, contribuendo a nutrire e a tenere in vita il loro legame. Se il carteggio – solo di recente oggetto di uno studio sistematico4 – ci restituisce finalmente un Matteotti intero, non più scisso tra vita e politica, tra affetti e politica, a prendere corpo e voce è la figura di Velia, con la sua personalità complessa e sfaccettata, non più relegata, come fu per lungo tempo, al ruolo di “vedova del martire”. Lo sguardo incrociato sulle lettere permette, così, di rileggere e interrogare le loro biografie in una nuova ottica, quella di relazione per l’appunto, che consente di mettere in luce sia aspetti nascosti delle loro singole personalità, sia la dinamica dello scambio, i cambiamenti di ruolo, il valore reciprocamente rispecchiato5 . Diversamente dalla coppia Turati-Kuliscioff6, per cui la comune passione ideale fece da tessuto connettivo alla relazione, Giacomo considerò Velia il suo “rifugio di bellezza e di amore che in ogni momento e in ogni caso farà bella la sua vita7 ”, e a lei si rivolse – come scrisse in una delle sue ultime lettere – “per avere aiuto nella ricerca della via migliore”, per poter leggere nei suoi occhi “la verità intera8 ”. Velia, di fatto, non ritagliò per sé un ruolo pubblico, si tenne lontana dalle frequentazioni politiche del marito, scegliendo consapevolmente quello di confidente, ispiratrice e sostegno di Giacomo, di cui coglieva il dissidio talvolta lacerante – dissidio che attraversa l’intera corrispondenza epistolare – tra “l’attaccamento a Velia (il bisogno di lei!) e gli ideali e i doveri della sua generosa e irrinunciabile militanza socialista9 ”. La natura del loro rapporto si chiarisce in questa bellissima lettera del luglio 1913:
No, ascoltami, non ti avvenga mai di lasciarti prendere a momenti – anche rapidi – il cui pensiero di abbandonare tutto ciò che forma la tua aspirazione per una sola vita d’amore, ti possa essere di sollievo; né a questo si deve dare nemmeno il nome di illusione; non un invito a rompere tutto quello che ha formato la tua vita fin’ora, deve essere l’affetto mio; no, voglio che tu debba sentire in me tutto il conforto di ciò che arresta e abbatte spesse volte nella via che ognuno si sceglie; voglio che tu ti possa volgere serenamente a questo conforto, sempre a qualunque momento, in qualunque circostanza della tua vita, senza che nulla di te vi rimanga muto di quello che ha bisogno di amore e di bene; una vita di solo amore, non potrebbe mai bastare a un uomo come te, che come tutti gli esseri che hanno bisogno di agitarsi in qualche cosa, fanno sorgere all’infinito la necessità di continuare. Essa deve essere accolta nell’illusione come una forza che alimenti tutto, senza toccare, senza confondersi, neanche nel momento estremo della gioia che fa vivere uno del respiro dell’altro. […] Allora sta quieto, seguita con entusiasmo tutto quello che ti rende lieta la strada e che te la fa desiderare10 .10
A questo compito Velia cercò di tenersi sempre fedele. Lo fece, per esempio, in occasione del loro matrimonio, quando accettò – lei, fervente cattolica – il solo vincolo civile di fronte all’opposizione di Giacomo al rito religioso, che per lui avrebbe significato l’abiura di quella “dirittura quella sicura precisa coerenza di atti e di pensiero, […] bisogno assoluto per attraversare una vita di lotta di attività11 :
Ma che cosa avresti poi anche tu di me? Una forma flaccida d’uomo, che alla debolezza fisica aggiunge quella morale. Perciò è bene che ci lasciamo; non dobbiamo arrivare ad avvilire il nostro amore la più bella e pura cosa di questa vita12 .
Niente cambierà ne la tua vita – gli risponde Velia – saremo felici lo stesso e tu non distruggerai ciò che fa parte viva de la tua persona. Puoi darmi la mano, sicuro che ti aiuterò verso il punto dove tu sei rivolto e che è in me pensiero come di una seconda vita […]. Sarò religiosa lo stesso, ci vorremo bene lo stesso, vivendo uniti in qualsiasi lotta13 .
E il sostegno di Velia si rivelò fondamentale, nel lungo esilio in Sicilia, dove Giacomo fu di fatto confinato e sottoposto a speciale vigilanza, arbitrariamente sottratto alla vita familiare e ad ogni impegno politico per il suo irriducibile rifiuto della guerra, espresso in più occasioni pubbliche. Così gli scriveva, la sera del 6 maggio 1917, dopo un fugace incontro domenicale a Messina, dove si era trasferita in un albergo per essere vicina al marito:
Sento adesso il rimpianto delle tue parole di stasera che questo è il periodo più bello che ci viene rubato. Però non mi turba; solo ne nasce il desiderio lontano di ricominciare quella vita comune così grande e così buona14 ”.
Negli anni tanto attesi del dopoguerra, quando la speranza era di ritornare “alle cure dolci della vita comune” Velia avvertì quasi immediatamente che la decisa opposizione di Giacomo al fascismo lo avrebbe esposto a rischi maggiori, come di fatto avvenne:
Mi è difficile persuadermi – scriveva Velia in una lettera del 25 gennaio 1921, all’indomani della prima aggressione fascista subita da Giacomo – che arrivato a questo punto non ti è ammessa nessuna viltà, anche se questo dovesse costare la vita”15 .
Il peso della solitudine, la stanchezza, le ansie per la sorte del marito, la paura per la sua vita e quella dei figli segnano il tono angosciante, a tratti disperato, delle lettere tra il 1921 e il 1923, mescolandosi al sentimento di impotenza e di disillusione di Giacomo di fronte all’affermazione violenta del fascismo, unito al profondo rammarico “nel vedere quanto la sua fede fosse ormai un ostacolo alla felicità famigliare”16 , tanto sognata ma sempre più lontana:
Sono passati alcuni anni e li abbiamo trovati spesso seminati di dolore più che di gioia. Quando abbiamo creduto di ritrovare la tranquillità di là da un giro tempo, abbiamo trovato talvolta un nuovo sconvolgimento. I progetti migliori non si sono potuti attuare e quasi si teme di proporne alcuno nuovo17 .
E lei:
Quanto le ho desiderate certe ore con te, senza che siano mai venute; ma passate vicine a cose che avessero per me un sentimento, una presenza di altri giorni nostri, che avessero veduto già lacrime e gioia della nostra vita. Invece mai; tu sei sempre ritornato nella solita camera trovata qua e là, e io rimasta sola, sempre solo qua e là, col cuore freddo e il vuoto della separazione. Basta, basta, specialmente ora se tempi più duri devono venire18 .
Se l’amore non viene meno, Velia tuttavia si sente “vuota e sperduta”, teme di non avere più la forza di svolgere il compito che si era data:
Oggi gli avvenimenti mi pare che mi rubino il bene che ho raggiunto e allora li rinnego anche se sono vita tua, li vorrei sopprimere per avere libera la strada e non mi accorgo che ti offendo per loro, e non so frenare il grido che mi prorompe da l’animo senza controllo, pur sapendo tu me ne accuserai; ma io insorgo soltanto per ciò che è mio e che non posso piegarmi a vedermi conteso da una battaglia estranea a noi, proprio non posso, e questa realtà non la voglio, e allora mi pare di insorgere contro di te che me la imponi. Ma poi vedi che tutto cade, e mi rimane il dolore immenso di dover vedere come possano essere nemici tra loro nati né la stessa terra. […]19 .
L’armonia famigliare si ricompone nell’estate del 1923, l’ultima estate, trascorsa assieme a Roccaraso:
Ripenso a quei giorni – scrive Giaki – e a quelli più antichi e belli del nostro amore, li unisco insieme e mi pare che della mia vita non ci sia stato altro che quello; tutto il resto sparisce […]20 .
E Velia (il Chini):
Ma come noi ci amiamo tanto e finivamo quasi la nostra vita così, disuniti, amareggiati, lontani! A volte ho la sensazione che mi si stacchino i capelli, che mi cada qualcosa da dosso, come se più nulla di me fosse mio. I bambini stessi, mi meraviglio che siano così grandi e mi domando come hanno potuto nascere prima, in cui certo non ti conoscevo come ora, e non avevo veduto di quale amore sei capace, di quale aspirazione puoi raccogliere in esso21 .