EPISODIO 7 – GIACOMO MATTEOTTI E I MASSIMALISTI

Progetto: Matteotti e gli altri

Podcast: Rivoluzionari

Calssificazione: Contenuti adatti a tutti

Stagione: 3

Numero dell’episodio: 7

Tipo di episodio : Completo

 

Giacomo Matteotti ripercorrerà le tappe di un duello politico che riscaldò gli animi dei socialisti. Fin dalla fondazione del PSI, erano presenti due correnti contrapposte: riformisti e massimalisti. Per questi ultimi, come Giacinto Menotti Serrati e Costantino Lazzari, bisognava puntare alla nascita della società socialista non attraverso la lunga pratica delle riforme.
Ma, al contrario, attraverso la rivoluzione il proletariato avrebbe dovuto prendere il potere.
Scopriremo come Giacomo Matteotti abbia sempre faticato a capirsi con i massimalisti.

Podcast realizzato da FIAP con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione Anniversari Nazionali ed eventi sportivi nazionali ed internazionali. Scritto dallo storico Jacopo Perazzoli, sceneggiato da Donatella Fiorella e Andrea Ricciardi; narrato da Edoardo Mininni, Vittorio Tosi, Donatella Fiorella; con la produzione di Gabriele Beretta.

Jacopo Perazzoli

Giacomo Matteotti e i socialisti massimalisti

Fin dalla sua fondazione nell’agosto 1892 a Genova, gli equilibri del Partito socialista italiano sono stati caratterizzati dalla presenza di due correnti contrapposte, che rimandavano a modalità differenti di arrivare alla costituzione dell’agognata società socialista: da un lato, i riformisti; dall’altro, i massimalisti. Per i primi, si trattava di costruire l’avvento del socialismo nella pratica quotidiana grazie al varo di determinate riforme che avrebbero portato ad un lento ma costante miglioramento della società. Per i secondi, al contrario, bisognava puntare alla nascita della società socialista non attraverso la lunga pratica delle riforme, che avrebbe richiesto tempo; semmai, il proletariato avrebbe dovuto prendere il potere attraverso la lotta di classe e la rivoluzione sociale.

Vicino ai riformisti, anche se capace di elaborare una propria linea politica non del tutto assimilabile all’uno o all’altro gruppo del PSI, Giacomo Matteotti con i massimalisti avrebbe sempre faticato a comprendersi.

Le difficoltà del rapporto tra Matteotti e i massimalisti ci vengono confermate da quattro episodi specifici della storia socialista.

Attorno alla metà del 1912, Matteotti, sul giornale dei socialisti polesani, “La Lotta”, aveva scritto che «il rivoluzionarismo», di cui si era fatto portatore, «non doveva essere scambiato per la teoria del ‘tanto peggio, tanto meglio’, cioè la riaffermazione del progressivo immiserimento della classe lavoratrice finché questa, un bel giorno, stremata, con un colpo di mano, con la violenza, soppianti di punto in bianco la classe borghese – con tale rivoluzionarismo non potremmo certo stare». A suo avviso, a differenza di quanto sostenevano proprio i massimalisti, «il rivoluzionarismo non era che (non sembri un paradosso!) uno dei modi di essere del riformismo. Già fin dal Congresso di Imola del 1902 noi ci proclamammo infatti ‘riformisti perché rivoluzionari’, e cioè sempre dicemmo di volere usare volta per volta, e secondo l’opportunità e il momento storico, entrambe le tattiche, la transigente come la intransigente».

Il secondo episodio riguarda il rapporto tra Matteotti e Mussolini. Dallo scranno della direzione del quotidiano del PSI che aveva assunto sul finire del 1912, Mussolini decideva di impostare una linea editoriale dai toni infuocati, che però non convinceva in alcun modo il socialista polesano. Anzi, lo faceva diventare sempre più scettico nei confronti di quei compagni di partito che potrebbero essere apostrofati come “rivoluzionari della domenica”: come a dire, sempre pronti alla rivoluzione a parole, ma poi, quando si tratta di lavorare concretamente per il proletariato, nessuna idea e, tanto meno, nessuna proposta.

La storia avrebbe portato proprio Mussolini ben distante dal mondo socialista: l’articolo intitolato Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, uscito sul giornale del 28 ottobre 1914, gli sarebbe costata l’espulsione dal PSI. Per Matteotti questa svolta, che lasciò basiti tantissimi compagni di partito, non era affatto una sorpresa: «questi così detti rivoluzionari», così scriveva proprio nell’autunno di quel drammatico anno, «non sieno [sic] altro che degli impulsivi momentanei […] capaci di porre come dogma assoluto per ogni luogo e tempo quello che dieci minuti dopo rinnegheranno». Da quel momento, Matteotti e Mussolini si sarebbero trovati puntualmente sui due versanti opposti della storia.

Oltre alla concezione del metodo politico, Matteotti era distante dai massimalisti anche per l’atteggiamento da tenere dinanzi alla Grande guerra. Come noto, il segretario del PSI, cioè il massimalista Costantino Lazzari, coniò la formula del “né aderire, né sabotare”: per i massimalisti bisognava dare più attenzione alla prima parte, così da dimostrare la distanza dei socialisti da una guerra che si riteneva ingiusta. Al contrario, i riformisti intendevano porre l’accento sulla seconda parte, “né sabotare”: così facendo, il PSI si sarebbe mostrato responsabile di fronte agli sforzi che il Paese era ormai prossimo a dover compiere.

Di fronte ad una rotta che sembrava portare anche l’Italia in guerra, sul finire del 1914 il massimalista Giacinto Menotti Serrati, che aveva sostituito Mussolini alla direzione dell’“Avanti!”, decideva di lanciare una campagna di controinformazione, così da raggiungere un obiettivo ben preciso: dimostrare l’arretratezza italiana e, dunque, l’irresponsabilità del governo che, anziché curarsene, stava lavorando per trascinare il Paese nel conflitto. Per questa ragione, si rivolgeva direttamente a Matteotti, nel frattempo diventato il volto più noto del PSI in una delle zone meno sviluppate della Penisola, cioè il Polesine, dove quasi il 50% della popolazione era ancora analfabeta.

«Caro Matteotti», così scriveva Serrati, «Intendiamo fare nell’“Avanti!” una viva campagna per dimostrare la seguente necessità di provvedere ai bisogni gravissimi di talune piaghe d’Italia, del Veneto in particolare modo. Puoi mandarmi subito un vivo, snello, articolo circa la situazione in provincia di Rovigo? Ci vogliono dati di fatto, impressioni».

Quasi per confermare quanto notato da Serrati, all’inizio del 1915 il quotidiano socialista pubblicava una richiesta ben specifica che era stata formulata proprio nelle zone matteottiane: «C’è una grave questione: quella del pane quotidiano. Noi chiediamo il pane ai consorzi agrari e lo chiediamo anche al Ministero, che deve sapere il dover suo ed essere a conoscenza della tragica condizione dei paesi di periferia, provvedendo nel promuovere lavori, lavori, lavori e col registrare le immediate riserve che si trovano ben custodite non solo nel Veneto. Dal Basso Polesine, dal Basso Padovano, dal Cadore, dai paesi prealpini del Veronese giunge l’eco di un grido: Pane e lavoro! Il pane sta per diventare polenta – a 30 centesimi al chilo! – e la polenta sta per diventare cibo prelibato. E … partiamo per il fronte!».

Leggendo quelle parole, possiamo immaginare la reazione di Matteotti: com’era possibile accettare la guerra quando la situazione, nel suo Polesine e un po’ in tutto il resto d’Italia, era così grave soprattutto per il proletariato? Ebbene, se la guerra era sbagliata e arrivava a peggiorare un quadro già nefasto, si poteva far finta di niente e accettarla oppure bisognava agire per impedirne lo svolgimento? Non gli andava bene l’atteggiamento rinunciatario del suo maestro politico, cioè Filippo Turati, e dei riformisti di cui era pur parte; ma non accettava neppure la condotta dei massimalisti, pronti solo a parole a scendere in campo contro il conflitto.

A fronte della timidezza di riformisti e massimalisti, Matteotti decideva di chiarire con nettezza le sue posizioni. Per lui, il PSI aveva «il dovere di opporsi con tutte le armi possibili all’intervento». E se questa decisione avesse condotto all’esplosione di una rivoluzione, non vi sarebbe stato nessun rischio di cortocircuito ideologico e/o politico: «Da buon riformista», spiegava ancora, «io non ho mai negato le possibilità e necessità rivoluzionarie. Non già quelle che dovrebbero di punto in bianco sostituire il mondo socialista al mondo capitalista, o il mondo dei buoni a quello dei cattivi; ma quelle certamente che ci fanno evitare un maggior male, e che mirano a sbarazzare il terreno del progresso socialista da alcuni particolari ostacoli, da alcune particolari croste, che resistono sebbene al di qua o al di sotto si sia formata una forza opposta; e occorre lo scoppio di violenza».

Quarta e ultima prova della distanza tra Matteotti e i massimalisti non può che coincidere con l’interpretazione della Rivoluzione d’ottobre. In Russia, sotto la spinta di un conflitto sempre più impopolare, il 14 marzo 1917 lo zar Nicola II decideva di abdicare. Si era aperto quanto Lenin e i bolscevichi stavano attendendo da tempo: l’opportunità di arrivare alla guida della Russia, così da provare a costituire la tanto agognata “società socialista”.

Per i massimalisti, non potevano esserci dubbi: pur in assenza di notizie certe, Lenin e i bolscevichi erano l’archetipo perfetto, cui bisognava rifarsi ciecamente. «Viva Lenin!», scriveva nell’estate del ’17 Serrati, «Viva Lenin! Anche perché egli è un poco l’Internazionale. Non l’Internazionale dei patteggiamenti e degli accomodamenti: l’Internazionale che si acconcia alla guerra quando la guerra infuria e ritrova sé stessa quando la bufera sta per placarsi». E così concludeva: «Così la folla ha levato il suo grido. E Lenin è diventato popolare in Italia grazie alla calunnia degli avversari».

A quel tempo Matteotti non poteva reagire alle prese di posizione dei massimalisti, trovandosi sotto le armi. Finita la guerra e dismessa l’uniforme (solo nel marzo 1919), Matteotti si immergeva nella campagna elettorale che, dopo le elezioni politiche del 16 novembre, lo avrebbe condotto per la prima volta in Parlamento. A Bologna, durante il Congresso nazionale, Matteotti poté ascoltare il discorso con cui il segretario Lazzari esponeva il programma massimalista: «Consideriamo che siamo oggi in una situazione peggiore di prima, perché ci troviamo di fronte ad una borghesia che si crede di aver vinto la guerra. La storia della frazione nostra è tutta storia di preparazione rivoluzionaria; ma prepariamo appunto perché sappiamo di non avere ancora tutta quella forza che ci metta in grado di rinunciare ad ogni altro mezzo di azione».

Sentite quelle parole, Matteotti capiva che toccava a lui replicare, iscrivendosi prontamente alla lista degli oratori. Per lui, l’approccio di Lazzari e dei massimalisti era inconcludente: «Non c’è dubbio che dopo la guerra moltissime sono le masse a noi aderenti, ma esse vogliono l’unità del Partito, e tutti coloro che vogliono sostituire il regime socialista al regime capitalista hanno diritto alla cittadinanza nel nostro Partito». E quindi la stoccata: «Siamo contro i riformisti, che vogliono la riforma come fine, non come mezzo; e siamo contro a quelli che vogliono la insurrezione come fine e non come mezzo. Non bisogna polarizzare il movimento socialista solo nella violenza, perché ci sono altri mezzi di cui servirsi».

Altroché «fare come in Russia», come continuavano a sostenere i massimalisti, si doveva quanto prima immaginare un programma d’azione che fosse funzionale al contesto italiano: «È dalle organizzazioni economiche che bisogna prendere le masse per le costituzioni sovietiste di domani. È dalle organizzazioni economiche che dobbiamo aspettarci i futuri ordinamenti politici. Forse le teorie massimaliste propugnate dai meridionali, dipendono anche dalla mancanza di forti movimenti economici nel Mezzogiorno. Ciò non significa che non vi siano nel Mezzogiorno compagni valorosi che si dedichino con fervore al movimento operaio. Nel movimento economico è il fulcro dell’azione socialista. Il funzionamento del Partito Socialista è quello di coordinare i vari interessi delle categorie operaie verso il fine del socialismo».

Neppure l’ascesa del fascismo avrebbe spinto Matteotti e massimalisti ad avvicinarsi: troppo grandi da superare erano le differenze sul piano ideologico e politico. Proprio la violenza squadrista delle camicie nere costringeva Matteotti a rivedere la sua impostazione politica: preso continuamente di mira dalle aggressioni fasciste, si accorgeva che non era più possibile pensare alla costruzione della società socialista. Semmai, i tempi richiedevano una difesa della fragile democrazia italiana, aprendo il PSI alla collaborazione con le altre forze liberali e antifasciste.

Ancora prima della marcia su Roma, un momento decisivo, di svolta, si registrava al Congresso nazionale del PSI, che si svolge a Milano dal 10 al 15 ottobre 1921. In un clima segnato dalla violenza fascista in buona parte del Paese, il 13 ottobre Matteotti cercava di attirare l’attenzione proprio sulle nuove condizioni dell’Italia: «Parlo a nome degli assenti, di quelli che non posso venire a questo Congresso e che pensano che i Congressi invece di servire a far parole e dividere, non debbano servire a dare sprone, insegnamento, conforto. Quegli assenti sentono che in queste dispute sembriamo gli ebrei del Tempio che non sentivano il soffio di nuova vita che veniva da fuori. Noi parliamo di tendenze, dimenticando il popolo lavoratore che è fuori». E poi, rivolgendosi ai suoi compagni che escludevano qualsiasi ipotesi di accordo con gli altri partiti per fronteggiare il fascismo, così affermava: «Se si dice collaborare sistematicamente, non è più socialismo e dovremmo uscire dal Partito. Ma il problema è se si possa nell’interesse del proletariato usare della collaborazione. Quei rappresentati russi che ci vengono somministrati ogni giorno dopo il pasto, accusano i massimalisti di fare già della collaborazione. Noi non vi accusiamo se vediamo che tenete conto della realtà, giustificando o suggerendo atti di collaborazione». Ecco il punto: si poteva, si doveva, collaborare per impedire che la situazione degenerasse.

Purtroppo, nonostante le speranze di Matteotti, la storia del PSI, e con essa quella d’Italia, sarebbe andata in ben altra direzione.

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