EPISODIO 6 – GIACOMO MATTEOTTI E LUIGI ALBERTINI

Progetto: Matteotti e gli altri

Podcast: Rivoluzionari

Calssificazione: Contenuti adatti a tutti

Stagione: 3

Numero dell’episodio: 6

Tipo di episodio : Completo

 

A confronto Giacomo Matteotti e Luigi Albertini: a lungo avversari politici, si avvicinarono con l’ascesa al potere del fascismo. Luigi Albertini, direttore del “Corriere della Sera” per venticinque anni, senatore del Regno d’Italia, di estrazione alto-borghese e di orientamento liberale, conservatore illuminato. 

Podcast realizzato da FIAP con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione Anniversari Nazionali ed eventi sportivi nazionali ed internazionali. Scritto dallo storico Andrea Castagna, sceneggiato da Donatella Fiorella e Andrea Ricciardi; narrato da Edoardo Mininni, Vittorio Tosi, Donatella Fiorella e Dario di Stano; con la produzione di Gabriele Beretta.

Andrea Castagna

Giacomo Matteotti e Luigi Albertini

Difficile immaginare personalità più distanti: Luigi Albertini, direttore del “Corriere della Sera” dal 1900 per venticinque anni, senatore del Regno dal dicembre 1914, di estrazione alto-borghese e orientamento liberale, conservatore illuminato, voce autorevole e guida riconosciuta del composito fronte interventista al tempo della Prima guerra mondiale e Giacomo Matteotti, originario del Polesine, iscritto al Partito Socialista Italiano fin dalla gioventù, dal novembre 1919 deputato socialista e dall’ottobre 1922 segretario del Partito Socialista Unitario nato dalla scissione della corrente riformista di Filippo Turati e Claudio Treves, convinto e coerente antimilitarista nonché fiero oppositore dello squadrismo fascista padano, particolarmente rozzo e violento.

A lungo avversari politici inconciliabili, le loro traiettorie si avvicinarono dinnanzi all’ascesa del fascismo; meglio, Albertini si allontanò gradualmente dalla posizione prevalente nel mondo conservatore liberale, propenso a riconoscere al fascismo una funzione di ripristino della legalità e di rinnovamento dell’esangue compagine statuale, fino ad ammettere il sostanziale fallimento della “normalizzazione” costituzionale dei fascisti e convergere in una coraggiosa opposizione aperta al nascente regime.

Dal ricordo che ne fece Albertini un anno dopo il delitto, sappiamo di un solo incontro di persona tra i due, avvenuto a fine maggio 1921, quando Matteotti chiese l’invio di un corrispondente del quotidiano milanese nel Polesine martoriato dalle azioni fasciste: 

Lo conobbi prima della marcia su Roma. Era venuto nell’ufficio romano del “Corriere” a narrarmi episodi di violenza che gli rivoltavano l’anima e che dovevano incontrare il biasimo di coloro stessi i quali avevano avversato in buona fede l’azione dei socialisti. Lo vedo ancora seduto di fronte a me parlarmi con dignità e misura, con quella linea che si addice a chi visita per la prima volta un uomo di altra parte e non vuole che il suo passo sia attribuito a moventi meno che nobili. Da allora non ebbi più occasione di incontrarlo.

 

La Prima guerra mondiale

Di fronte allo spartiacque epocale rappresentato dalla Grande Guerra, le opinioni e gli atteggiamenti di Luigi Albertini e Giacomo Matteotti non avrebbero potuto essere più nettamente divergenti. 

Il “Corriere della Sera”, negli anni precedenti alla crisi del luglio 1914 scaturita dall’assassinio a Sarajevo dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, aveva sistematicamente esaminato e discusso la situazione nei Balcani, mettendo in guardia l’opinione pubblica sui propositi espansionistici dell’Austria-Ungheria, sui rischi impliciti nel rinnovo della Triplice l’alleanza difensiva che legava l’Italia agli Imperi dell’Europa centrale , nonché sull’inadeguatezza dell’esercito italiano e sulle insufficienti difese del confine orientale, per non dire della fragilità dell’economia che avrebbe dovuto sostenere lo sforzo bellico. Tuttavia, nonostante la decisione personale di appoggiare l’intervento da parte di Albertini fosse stata ardua, quasi angosciosa, prevalse infine l’avversione verso il tipo di società e di Stato che la Germania rappresentava e aveva dimostrato di voler imporre all’Europa: una sorta di questione morale, prima ancora che politica. 

Nella visione di Albertini il ruolo interventista del “Corriere”, decisivo e di tremenda responsabilità, fu assolto tramite una campagna svolta con misura, coscienza, documentazione amplissima, mai ispirata da odio verso un popolo, ma piuttosto dalla ripugnanza nei confronti di ideali che contrastavano coi diritti di altri popoli: in questi termini si andava oltre la polemica italo-austriaca, il problema delle compensazioni territoriali nei Balcani o nell’Adriatico, la “Quarta Guerra d’Indipendenza” per ricongiungere Trento e Trieste, Terre irredente, alla Patria, entrava in gioco una netta contrapposizione di civiltà e la conseguente adesione, piena e decisa, alla civiltà liberale occidentale rappresentata dalle scelte della Francia e dell’Inghilterra.

Coerentemente, durante la guerra Albertini intensificò gli sforzi per fornire al pubblico italiano il quadro più esauriente possibile delle operazioni militari e degli sviluppi politici del conflitto. L’attività di controllo, suggerimento, sollecitazione dei corrispondenti e degli inviati speciali rappresentò il culmine della sua esperienza professionale di direttore, fino ad assorbirlo totalmente in una logorante lotta contro la censura sulla stampa: piuttosto che la prospettiva del giornalista che si batteva per poter svolgere il proprio compito d’informazione, compatibilmente con le esigenze strategiche del Comando Supremo, pesava una concezione della guerra come guerra totale, cui il popolo italiano doveva partecipare direttamente e coscientemente, non solo attraverso il sacrificio spesso passivo di milioni di uomini forniti all’esercito combattente. Di conseguenza, Albertini fu spesso presente in zona di operazioni dove intrattenne stretti rapporti soprattutto con il generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore.

All’opposto, per Matteotti, coerente con l’originaria parola d’ordine dei socialisti, che prima di diventare “Né aderire, né sabotare” era stata “Non un uomo, né un soldo, a qualunque costo!”, l’avversione alla guerra affondava le radici nella fratellanza tra i popoli. Quello di Matteotti fu un pacifismo integrale e internazionalista, ben distinto dal neutralismo tattico governativo di Giovanni Giolitti; compito storico del proletariato, non solo italiano, sarebbe stato impedire l’entrata nel conflitto delle rispettive nazioni: Matteotti avrebbe voluto che il Partito socialista, insieme con le organizzazioni economiche e sindacali della Sinistra, avesse organizzato l’opposizione all’interventismo e allo sforzo bellico, fino all’estremo rimedio dell’agitazione rivoluzionaria. Ciò per evitare un inutile macello di popoli, nella convinzione profonda che il costo umano ed economico delle guerre, il loro inevitabile portato di morti e indicibili sofferenze, sia sempre sostenuto dai proletari e dai ceti più umili; secondo Matteotti non esisteva ragione valida per sacrificare anche una sola vita per una lotta che riguardava le borghesie delle nazioni impegnate nel conflitto armato.

Figlio unico di madre vedova e afflitto da problematiche polmonari, Matteotti fu inizialmente riformato e collocato in congedo illimitato. Dalla metà di giugno del 1915 fu peraltro costretto a letto per parecchie settimane da un grave attacco di tubercolosi, tanto serio da far temere il peggio, considerata anche la triste sorte dei fratelli Matteo e Silvio. Venne poi richiamato alle armi in un reggimento d’artiglieria da campagna e destinato, il 25 luglio 1916, a Cologna Veneta, in provincia di Verona, ma presto, il 12 agosto, fu trasferito in Sicilia, dove trascorse la maggior parte della lunga ferma in una sorta di confino obbligato, lontanissimo dal Polesine natio e soprattutto dal fronte. Probabilmente la fama di elemento sovversivo ebbe il suo peso nel determinare questa soluzione. Assegnato dapprima a una compagnia di disciplina in località Campo Inglese, frazione del Comune di Messina vicina alla costa, fu quindi ricollocato in località e forti Forte dei Centri, Rasocolmo, Monte dei Galli posti sulle alture circostanti. Ricevette infine l’incarico di mantenere i rapporti con la Croce Rossa Internazionale al fine di ottenere informazioni sui soldati italiani in prigionia: a guerra conclusa, le autorità militari rilasciarono a Matteotti un attestato di “buona condotta e di aver servito con fedeltà e onore”.

 

Il difficile dopoguerra, tra speranze e delusioni

Soprattutto dopo Caporetto, di fronte alla coesione morale del Paese impegnato nello sforzo bellico, Albertini iniziò a considerare con maggiore immediatezza i problemi concreti della società italiana, elaborando, sia pure per la società di guerra, soluzioni diverse da quelle proposte nell’anteguerra e avviandosi a superare la concezione della classe politica come divisa tra “costituzionali”, ossia i borghesi liberali depositari della tradizione dello Stato sorto nel 1861 dalle lotte risorgimentali, e “anticostituzionali”, ossia i democratici radicali e i socialisti, piccoli borghesi o proletari, che operavano al di fuori di questa nobile tradizione. 

Questo “passo a sinistra”, propiziato dall’esito vittorioso del conflitto, non valse però a diminuire le distanze dai socialisti. Nella prospettiva di Albertini, dopo la conclusione delle ostilità, tra i socialisti il disfattismo massimalista aveva preso il sopravvento sul patriottismo difensivo, per quanto cauto, che aveva ispirato ad esempio Filippo Turati, ma anche il sindaco socialista di Milano Emilio Caldara. In quest’ottica, i socialisti accentuarono la loro ostilità non solo all’interventismo nel suo complesso, ma anche alle tendenze più aperte e antinazionaliste dell’interventismo democratico, perché quelle tendenze avrebbero ostacolato la radicalizzazione della vita politica italiana tra conservazione e rivoluzione.

Ai progetti dei “bolscevichi”, gli ammiratori della rivoluzione dell’ottobre 1917 in Russia, Albertini e i conservatori “illuminati” provarono a opporre riforme progressive attuate in un’ottica di conciliazione dei legittimi interessi sociali contrastanti: riforma elettorale con introduzione del sistema proporzionale, riforma tributaria con introduzione della nominatività dei titoli azionari, dell’imposta progressiva sul reddito e sulle successioni, della dichiarazione del valore dei beni immobiliari e dell’imposta sui sovraprofitti di guerra, riforma doganale.

Albertini giunse probabilmente a considerare il socialismo il primo e fondamentale pericolo dell’Italia post-bellica, riferendosi a quel socialismo che, ai suoi occhi, ripudiando la trasformazione graduale della società e la lotta sindacale limitata al miglioramento delle condizioni di lavoro, mirava a instaurare con metodi rivoluzionari la dittatura del proletariato e la repubblica socialista, impegnando le masse nelle agitazioni di piazza così da avvicinarle e prepararle alla violenza.

Dal canto suo, Matteotti, fin dal Congresso di Imola del 1902, si era definito “riformista perché rivoluzionario”, con ciò intendendo “di volere usare volta per volta, e secondo l’opportunità e il momento storico, entrambe le tattiche, la transigente come la intransigente”, chiarendo ripetutamente di essere “contro i riformisti, che vogliono la riforma come fine, non come mezzo; e […] contro a quelli che vogliono la insurrezione come fine e non come mezzo”, né di aver mai puntato a “polarizzare il movimento socialista solo nella violenza, perché ci sono altri mezzi di cui servirsi”.

 

L’ascesa del fascismo 

Tra l’autunno 1920 e la primavera 1921 Albertini, come larga parte della classe dirigente liberale, non seppe cogliere la differenza tra il “vecchio” fascismo politico milanese, il fascismo del “Popolo d’Italia”, diretto dalla personalità mutevole e opportunista di Mussolini, e il “nuovo” fascismo agrario dell’Emilia, intransigente, capace di iniziativa militare e apertamente sovversivo. 

Nel disperato desiderio di salvare lo Stato costituzionale e la tradizione politica e nazionale di cui, malgrado tutto, appariva depositario, Albertini considerava provvisorio il ruolo assunto dai fascisti di ristabilire l’ordine, sostituendosi alle autorità pubbliche: reazione violenta, certo, alle violenze socialiste, ma soltanto per supplire alle funzioni che lo Stato non poteva o voleva esercitare, una reazione il cui vero intento avrebbe dovuto essere il ripristino della legalità.

A riprova di ciò, l’impostazione della cronaca del “Corriere della Sera” risulta inevitabilmente favorevole ai fascisti, fin nei titoli dei servizi. Eclatante in particolare l’atteggiamento tenuto di fronte all’occupazione fascista di Palazzo Marino a Milano il 4 agosto 1922, e nei giorni immediatamente precedenti, durante lo sciopero generale “legalitario”, sciopero di protesta proclamato dall’Alleanza del lavoro contro le gravissime violenze fasciste ai danni delle organizzazioni operaie.

Mussolini seppe usare in modo lucido e sistematico i sentimenti antisocialisti e antipopolari diffusi tra i liberali per scalzare le sole organizzazioni che avessero un largo appoggio, una solida base nelle masse popolari, e fu capace persino di apparire, fino all’estate 1922, come un moderato cui gli intemperanti del suo partito occasionalmente prendevano la mano, ma in definitiva in grado di riportarli sotto controllo e desideroso di mantenersi ligio al regime costituzionale.

Ancora nel discorso al Senato del 13 agosto ’22 Albertini parlava della necessità urgente di “costituzionalizzare” il fascismo, chiamandolo a partecipare al governo nell’ambito di una compagine costituzionale che si sarebbe dovuta incaricare di “istruire” i nuovi venuti, li avrebbe dovuti riguadagnare all’idea e ai metodi liberali, avrebbe dovuto temperare la loro violenza e convogliare le loro energie tumultuose verso l’intento improrogabile della restaurazione dello Stato.

Dopo la Marcia su Roma, per molti mesi ancora Albertini improntò il proprio comportamento politico al fine di “normalizzare” il fascismo. Con nessun esito, se non un’atmosfera di aperta ostilità, l’isolamento e le minacce crescenti e sempre più violente nei confronti del “Corriere”.

È in questo ambiente di compressione e di intolleranza, non dominato, ma favorito, promosso dalle più alte sfere, che sono maturati i propositi e gli atti più criminosi. Ed è stato un crescendo continuo: dall’olio di ricino alla bastonatura, dalla bastonatura alla soppressione di figure non di prima linea, finché si è osato arrivare più su, levar di mezzo in piena Roma, alla luce del sole, un capo socialista […] credendo di passarla franca come altre volte (dal discorso di Albertini in Senato del 24 giugno 1924).

Dopo il delitto Matteotti

Il delitto Matteotti segnò la maturazione definitiva dell’antifascismo di Albertini. In Senato, il 24 giugno 1924, quando ancora rimaneva ignoto il luogo dov’era stato occultato il corpo del deputato socialista, non certo il suo destino, insieme ai soli Carlo Sforza e Mario Abbiate, espresse “un pensiero di opposizione netta, inequivocabile”: alla fine furono in ventuno (contro 225 favorevoli e 6 astenuti) a non votare l’autorizzazione all’esercizio provvisorio richiesta dal governo Mussolini, negandogli la fiducia. Nel discorso del 3 dicembre 1924 Albertini arrivò ad avanzare l’ipotesi di “un Ministero forte, un Ministero militare, ad esempio”, con l’unico, limitato compito di indire nuove libere elezioni.

Albertini divenne così l’alfiere della difesa della democrazia liberale, trovandosi accanto, uno a uno, gli avversari d’un tempo e rappresentando, per una breve stagione, il principale punto di riferimento dell’opposizione, l’unico capace di compattare un vasto fronte, dai socialisti riformisti ai liberali di ogni colore, fino agli ambienti espressione degli umori della Corona. 

Nell’aprile 1925 sottoscrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, nel maggio denunciò in Senato “la soppressione completa delle superstiti libertà”, esprimendo uno “stato d’animo di fiera, tenace, irriducibile opposizione contro quanto accade oggi in Italia”.

Alla fine Mussolini, mediante uno stratagemma legale, costrinse Alberto e Luigi Albertini a cedere le quote di partecipazione nella Società proprietaria del “Corriere della Sera” ai fratelli Crespi, già comproprietari con 35 carature su 60. Gran parte dei redattori e dei collaboratori, tra cui Luigi Einaudi, lasciarono via Solferino per solidarietà nei loro confronti. 

Il 28 novembre 1925, Luigi Albertini affidò il suo Commiato dai lettori del “Corriere” a un lungo articolo, pubblicato l’indomani, che così si concludeva: 

 

quest’ultima battaglia, combattuta in nome della stessa idealità, degli stessi princìpi liberali a cui ho sempre ispirato la mia azione così nella politica interna, come nella politica estera e nell’economia, convinto come sono che tutte le libertà sono solidali fra loro […] mi costa oggi il maggior sacrificio, quello del “Corriere”, a cui avevo consacrato intera la mia esistenza, che in venticinque anni, insieme con mio fratello e con tanti eminenti collaboratori […] avevo portato a non comune altezza. A tale immenso sacrificio vado incontro col cuore gonfio d’amarezza, ma a testa alta. Perdo un bene che mi era supremamente caro, ma serbo intatto un patrimonio spirituale che mi è ancora più caro, e salvo la mia dignità e la mia coscienza.

 

Bibliografia essenziale

I contenuti del presente testo sono tratti soprattutto da In difesa della Libertà. Discorsi e scritti, di Luigi Albertini (Milano-Roma, Rizzoli, 1947), Luigi Albertini, di Ottavio Barié (Torino, Utet, 1972), Luigi Albertini, di Luciano Zani (in Dizionario del Liberalismo italiano, tomo II, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015), Giacomo Matteotti, L’Italia migliore, di Federico Fornaro (Torino, Bollati Boringhieri, 2023) e L’oppositore. Matteotti contro il fascismo, di Mirko Grasso (Roma, Carocci, 2024).

Loading...