Progetto: Matteotti e gli altri
Podcast: Rivoluzionari
Calssificazione: Contenuti adatti a tutti
Stagione: 3
Numero dell’episodio: 5
Tipo di episodio : Completo
Episodio 1 | Episodio 2 | Episodio 3 | Episodio 4 | Episodio 5 | Episodio 6 | Episodio 7 | Episodio 8 | Episodio 9 | Episodio 10 | Episodio 11 | Episodio 12
Emerge una notevole distanza politica tra i due e un giudizio negativo di Matteotti su Giolitti.
Matteotti accusò Giolitti per scelte politiche incomprensibili alle masse lavoratrici, per il clientelismo e la corruzione nel Mezzogiorno, per l’alleanza con i cattolici, per la guerra di Libia e, infine, per l’atteggiamento di fronte al fascismo.
Podcast realizzato da FIAP con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Struttura di Missione Anniversari Nazionali ed eventi sportivi nazionali ed internazionali. Scritto dalla storica Alina Binaghi, sceneggiato da Donatella Fiorella e Andrea Ricciardi; narrato da Edoardo Mininni, Dario di Stano, Donatella Fiorella; con la produzione di Gabriele Beretta.
Alina Binaghi
Giacomo Matteotti e Giovanni Giolitti
In questo podcast si assiste a un dialogo immaginario intavolato fra Giacomo Matteotti e Giovanni Giolitti, due protagonisti di spicco del panorama politico italiano della prima metà del Novecento. I due, seppur in modo diverso, spesso diametralmente opposto, si rendono così portavoce delle tensioni sociali, economiche e istituzionali che attraversarono l’Italia negli anni successivi alla Prima guerra mondiale.
Giovanni Giolitti, figura tra le più longeve e influenti della politica italiana – presidente del Consiglio per cinque mandati tra il 1892 e il 1921 –, viene presentato come l’emblema del liberalismo del primo Novecento, ma anche dei limiti e delle ambiguità di una classe dirigente incapace di arginare l’avanzata delle forze eversive e reazionarie del fascismo. Giacomo Matteotti, invece, è il simbolo della più ferma opposizione morale e politica al regime mussoliniano, le cui violenze e soprusi denunciò con un’intransigenza e un coraggio pagati poi con la vita.
Dissenso sulla Guerra di Libia
L’intento principale dello scambio fittizio su cui si basa l’episodio del podcast è indagare e approfondire il confronto tra l’esperienza politica dello statista Giolitti e la severa condanna che del suo modus operandi fece il deputato socialista Matteotti.
Indubbiamente l’Italia poté compiere significativi passi in avanti grazie all’intervento giolittiano: la legge elettorale del 1912 con il conseguente allargamento del diritto di voto – il corpo elettorale, anche se unicamente maschile, passò dal 7% al 23,2%, coinvolgendo trentenni o minori di trent’anni, ma maggiori di ventuno, che pagassero un’imposta diretta annuale di almeno 19,80 lire, oppure che avessero conseguito la licenza elementare inferiore, oppure ancora che avessero prestato il servizio militare –, le riforme attuate a tutela dei lavoratori, il riconoscimento della validità degli scioperi per motivi economici, la regolamentazione del lavoro minorile e femminile, l’introduzione di norme precise per il pagamento di indennità per vecchiaia e per infortunio, l’obbligo il riposo settimanale, il potenziamento della rete ferroviaria statale e l’esonero dalle imposte per i territori agricoli nel meridione, così che i piccoli proprietari terrieri potessero intensificare la produzione e riavviare il commercio di prodotti agricoli. Tuttavia, nonostante tali innegabili traguardi, non pochi furono i motivi che spinsero il blocco socialista – peraltro diviso al suo interno fra l’ala riformista di Filippo Turati e quella massimalista di Enrico Ferri – a distanziarsi dall’operato giolittiano e a rifiutare nel 1903 e nel 1911 la proposta dello statista di entrare nel governo. La crescente tecnicizzazione della sua politica, inaccessibile e incomprensibile alle masse di lavoratori, il clientelismo e la corruzione nel Mezzogiorno, impoverito e abbandonato ai latifondisti, la machiavellica e opportunistica alleanza con i cattolici e, soprattutto, la dichiarazione di guerra all’Impero turco-ottomano fecero ben presto ricredere Turati, che inizialmente aveva visto nel liberalismo giolittiano l’unica strada percorribile per lo sviluppo industriale dell’Italia e che si era perfino così espresso: “Giolitti è meraviglioso, è l’uomo più forte, più intelligente e più diplomatico che vi sia nel Parlamento italiano”1 .
Il 29 settembre 1911, infatti, Giolitti fece consegnare la dichiarazione di guerra alla Libia: si avviò un conflitto, destinato a durare fino al 18 ottobre 1922, intrapreso con l’obiettivo di conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica, per scongiurare il rischio che tutto il Mediterraneo meridionale potesse passare sotto il dominio anglo-francese, considerata anche la recente occupazione francese del Marocco. Il 7 ottobre, al teatro Regio di Torino, davanti a un’“imponente e autorevole riunione di uomini politici e di illustri cittadini”, il presidente del Consiglio espose le ragioni dell’Italia e l’azione del suo governo:
La politica estera non può, come la politica interna, dipendere interamente dalla volontà del governo e del Parlamento ma, per assoluta necessità, deve tener conto di avvenimenti e situazioni che non è in poter nostro di modificare e neanche talora di accelerare o ritardare. Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo assumere tutte le responsabilità, poiché un’esitazione o un ritardo può segnare l’inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni e talora per secoli… La politica estera non può dare luogo a divisione di partiti perché dominata da un solo pensiero, che ci unisce tutti: quello della patria.2
In seno al Partito Socialista si acuirono le tensioni fra l’ala riformista e quella massimalista – la prima, incapace di prendere fermamente posizione, fu addirittura espulsa nel Congresso di Reggio Emilia del luglio 1912, mentre la seconda guadagnò sempre più consenso, trovando in Benito Mussolini un suo fervido e, con il senno di poi, inatteso sostenitore – e le prospettive di intesa fra il Governo e la sinistra risultarono così definitivamente azzerate.
Lo stesso Giacomo Matteotti, che sarebbe stato eletto deputato nel 1919, si schierò apertamente contro l’impresa libica che per Giolitti costituiva l’annuncio della “terza civiltà”, intrapresa dall’Italia in nome della “giustizia sociale”. Matteotti organizzò diverse manifestazioni di protesta contro la guerra, arrivando persino a mettere a disposizione il cortile della sua abitazione nel giugno del 1912, dopo che le autorità di polizia avevano negato l’uso della piazza di Fratta Polesine. Il “Corriere del Polesine” del 28 novembre 1912 riportò poi alcune dichiarazioni critiche di Matteotti sui risultati dell’impresa tripolina, da lui pronunciate durante una manifestazione a Villanova del Ghebbo:
Non è vero che l’Italia […] sia, dopo questa guerra, più temuta e rispettata. La Francia manda via da Tunisi i nostri operai, e all’estero si continuano a trovare italiani mendicanti, venditori di cerini e lustrascarpe. […] A Bengasi, Derna, a Tobruk non possiamo fare un chilometro fuori dalle trincee. Solo a Tripoli quel generale in capo fa qualche passeggiata in automobile. Questa guerra per l’Italia è stata un vero disastro.3
Come avrebbe ribadito anche alla vigilia della Grande guerra, Matteotti si oppose con fermezza al conflitto armato, profondamente convinto che il costo umano ed economico delle guerre ricadesse sempre sui proletari e che non valesse la pena sacrificare nemmeno una vita per una lotta combattuta tra le borghesie delle nazioni.
L’accusa di Matteotti: Giolitti complice del fascismo
Un altro episodio significativo in cui Matteotti, dopo essere stato eletto deputato nel 1919 per il collegio di Rovigo e Ferrara, si oppose apertamente a Giolitti – tornato capo del governo dopo le dimissioni nel 1913 in seguito al drastico calo della maggioranza, all’uscita dei radicali e al raddoppio dei seggi socialisti – fu il discorso pronunciato il 27 giugno 1920 a Montecitorio. In quell’occasione, il deputato socialista attaccò l’ormai ottantenne presidente del Consiglio parlando per un’ora, improvvisando una filippica dai toni ciceroniani contro colui che riteneva essere il massimo esponente della vecchia politica.
Matteotti confermò la sua posizione anche durante la Mozione socialista contro ogni forma di violenza, nella tornata del 31 gennaio dell’anno seguente, quando denunciò in Parlamento le violenze fasciste, accusando Giolitti di essere complice del dilagante squadrismo che stava travolgendo il Paese. Nella puntata del podcast si possono ascoltare alcune citazioni, qui riportate in modo più completo:
Il fatto nella sua precisione è questo: oggi in Italia esiste una organizzazione pubblicamente riconosciuta e nota nei suoi aderenti, nei suoi capi, nella sua composizione, nelle sue sedi, di bande armate, le quali dichiarano (hanno questo coraggio che io volentieri riconosco) dichiarano apertamente che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, violenze, incendi, e li eseguono, non appena avvenga o si pretesti che avvenga alcun fatto commesso dai lavoratori a danno dei padroni o della classe borghese. È una perfetta organizzazione della giustizia privata; ciò è incontrovertibile.
Il Governo presume di essere qualche cosa al di fuori e al di sopra delle classi, tutelatore dell’ordine pubblico ecc. Noi invece affermiamo, in precise parole, che il Governo dell’onorevole Giolitti e dell’onorevole Corradini è complice di tutti codesti fatti di violenza.
L’onorevole Giolitti […] si è schermito, dicendo: qui non si tratta affatto di complicità del Governo. Si tratta che l’una e l’altra parte vuole asservirsi il Governo.
No, onorevole Giolitti, in questo momento, l’abilità parlamentare è perfettamente inutile. Codesto vostro giuoco, in cui siete abilissimo e sperimentatissimo campione, non vale in questo momento.
La questione è molto più semplice. Noi non vi domandiamo nulla! Anzitutto non ci fideremmo di un servitore come voi che sarebbe sempre infedele. Non chiediamo nulla. È la falsità giornalistica che va dicendo che noi chiediamo all’onorevole Giolitti la protezione.
Noi desideriamo di sapere con precisione da voi che dite di essere il rappresentante della legge uguale per tutti, il repressore di ogni violenza, se veramente lo siete e se potete esserlo. Noi vi dimostriamo a fatti che tale non siete e non potete essere.4
Del resto, come riporta lo studioso Davide Grippa nel suo commento di appendice al volume Contro ogni forma di violenza (Einaudi, 2024), per lo statista piemontese il fascismo non costituiva una nuova e autonoma forza storica, bensì una “turbolenza prodotta dalla guerra, un guaio passeggero, un epifenomeno del capitalismo” e la giustificazione delle violenze in chiave antisocialista aveva molti sostenitori in quasi tutti i partiti all’interno del Parlamento, al punto tale che la mozione di Matteotti di condanna dell’ordine pubblico risultò largamente sconfitta.
L’episodio del podcast continua con un serrato botta e risposta fra Matteotti e Giolitti, volto a indagare le posizioni di uno e le ragioni opposte dell’altro.
In seguito alle crescenti offensive squadriste alle organizzazioni socialiste e al sempre più largo consenso riscosso dal movimento fascista, infatti, Giolitti decise lo scioglimento anticipato della Camera e, per le elezioni politiche del 1921, ripropose la formula del “blocco nazionale”, una lista di coalizione – già sperimentata alle amministrative del 1920 – comprendente i liberali giolittiani, l’Associazione Nazionalista Italiana di Enrico Corradini e i Fasci italiani di combattimento di Benito Mussolini. Nella convinzione di poter “costituzionalizzare” i fascisti, Giolitti favorì l’elezione a deputato di Mussolini e di altri 34 candidati al suo seguito.
Inoltre, anche dopo le sue dimissioni da presidente del Consiglio – dettate dall’esigua maggioranza da cui si vide sostenuto – e alla vigilia della Marcia su Roma, lo statista non cessò di caldeggiare il coinvolgimento dei fascisti nel governo, sperando di incanalare così il loro movimento in un alveo costituzionale. Addirittura, il 17 novembre 1922, accordò piena fiducia al primo governo Mussolini, convinto che non ci sarebbero potute essere alternative: “Questa Camera ha il governo che si merita!”. D’altronde, esso si configurava come un ministero costituzionale, nominato dal Re, con giuramento di fedeltà sia al sovrano sia allo Statuto, e che aveva esposto il proprio programma al Parlamento, ottenendo quasi all’unanimità il sostegno dei partiti liberali e democratici per attuarlo.
Il 9 giugno 1923, poi, Giolitti fu chiamato a presiedere la commissione nominata dalla Camera per esaminare il disegno di legge governativo e, pur di superare la “maledetta proporzionale”, approvò la famigerata Legge Acerbo. Pensava, illudendosi, che assegnare due terzi dei seggi alla lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti fosse il modo più efficace per stabilizzare l’esecutivo ed esimere il governo e il Partito Nazionale Fascista dal ricorso alla violenza.
La legge elettorale del 1919, col sistema della rappresentanza proporzionale, aveva frazionato la Camera in un gran numero di partiti e gruppi, rendendo così impossibile la composizione di una maggioranza omogenea, quindi possibile solamente la formazione di ministeri di coalizione fra partiti divisi e perciò organicamente deboli.5
Dal sostegno al rifiuto del regime mussoliniano
L’adesione dello statista piemontese al governo iniziò a vacillare in occasione delle elezioni del 1924. Per essere sicuro del successo, Mussolini aprì la lista ministeriale ai “fiancheggiatori”: liberali, democratici, demosociali, dannunziani, sardisti, una quindicina di ex deputati del Partito popolare e agrari. A differenza di Salandra, Orlando e De Nicola, Giolitti si rifiutò di entrare nel “Listone”, presentò in Piemonte una sua lista, “Democrazia”, e risultò alla fine eletto.
Resosi conto dei metodi autoritari con cui erano state condotte le elezioni – ampiamente denunciati da Matteotti in quello che fu il suo ultimo discorso in Parlamento, il 30 maggio 1924 – e convinto che la Camera eletta il 6 aprile non costituisse una base solida per Mussolini – del resto, appesantito dai fiancheggiatori, il “Listone” era ben lontano da un impegno univoco, il PNF era una polveriera di rivalità e la macchina burocratica era in larghissima parte di nomina giolittiana –, Giolitti sostenne sempre l’importanza di mantenere la lotta politica all’interno del Parlamento, così da costringere il capo del governo a scendere a patti con le opposizioni.
Per questo motivo, egli si espresse apertamente contro la celebre Secessione dell’Aventino – l’atto di protesta, nella forma dell’astensione di 123 deputati d’opposizione dai lavori parlamentari, seguito al brutale omicidio di Matteotti dei cui responsabili si pretendeva l’individuazione e il processo – da lui giudicata debole e poco intelligente: eludendo il confronto nella sede istituzionale del Parlamento, l’opposizione non poteva che lasciare mano libera a Mussolini.
Contrariamente, l’ottantaduenne Giolitti, a viso aperto e nella sede appropriata, il 14 novembre 1924 dichiarò il suo primo voto contrario al governo, dal momento che
con semplice decreto reale fu soppressa, di fatto, di diritto, la libertà di stampa, violando la legge e lo Statuto, che garantisce solennemente questa libertà. Si dirà, e l’ha detto or ora anche il presidente del consiglio, che quel decreto è applicato con discrezione e lo riconosco, ma le pubbliche libertà non possono dipendere dalla maggior o minore tolleranza dei prefetti… Il popolo italiano che sopportò eroicamente la più terribile delle guerre, dopo la vittoria non può essere diventato meno degno di quelle libertà che godeva da 70 anni… Così si pone in discussione la base fondamentale dello Statuto.6
E ancora, realizzando la sempre più autoritaria e dittatoriale natura del fascismo, nel gennaio dell’anno seguente si oppose alla riforma elettorale prospettata dal governo – il ritorno al collegio uninominale che avrebbe preluso a elezioni infattibili, mancando le libertà di stampa, di riunione, di associazione – e sottolineò poi le sue ferme intenzioni in una lettera inviata pochi mesi dopo alla figlia Enrichetta:
Devo venire a Roma perché non si creda che anch’io sia andato ad appollaiarmi sull’Aventino; ma non ho alcuna fretta di andare ad assistere ad una parodia di Parlamento.7
Infine, nel dicembre di quell’anno, il Consiglio provinciale di Cuneo, che ad agosto aveva rieletto Giolitti alla presidenza, votò una mozione con cui gli richiedeva l’adesione al fascismo. Lo statista rassegnò immediatamente le dimissioni, sia da presidente sia da consigliere, e decise di appartarsi progressivamente dalla vita politica, intraprendendo diversi viaggi in Europa, con una predilezione particolare per la Svizzera.
A pochi anni dalla morte, si scontrò così con la realtà dei fatti che Giacomo Matteotti per primo aveva denunciato tempo addietro. Fino alla fine, però, per quanto gli fu possibile, non rinunciò al suo mandato di deputato, deciso a esporsi sempre e comunque contro il regime in cui ormai non credeva più. Scrisse alla figlia il 6 aprile 1926:
Di salute sto benissimo; il tempo è bello, la campagna va bene, gli alberi da frutta sono mazzi di fiori. Ai primi del mese fui due giorni a Torino. Ora conto di non muovermi finché non debba tornar a Roma per la Camera; non conto però di fare il deputato molto zelante perché non ho mai amato far cose inutili, e ora credo non esista cosa più inutile della Camera alla quale è tolto ogni potere e che, se anche avesse dei poteri, né vorrebbe, né saprebbe esercitarli; avendo però un mandato lo esercito nella forma per escludere ogni mia solidarietà con chi ha disertato.8
Note
- Filippo Turati ad Anna Kuliscioff, dicembre 1903, in Giovanni Spadolini, Giolitti: un’epoca, Longanesi, Milano, 1985, p. 161.
Aldo A. Mola, Giolitti. Lo statista della nuova Italia, Milano, Mondadori, 2003, pp. 333-334.
Stefano Caretti, Giacomo Matteotti combattente contro la guerra, “Belfagor” 33, n. 4, 1978, p. 383.
Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XXV, 1A sessione, Discussioni, tornata del 31 gennaio 1921. Cfr. Giacomo Matteotti, Contro ogni forma di violenza, a cura di Davide Grippa, Milano, Einaudi, 2024.
Giovanni Giolitti a Camillo Corradini, 21 marzo 1924, in A. A. Mola, Giolitti, cit., p. 422.
Ivi, p. 432.
Giovanni Giolitti alla figlia Enrichetta, 11 maggio 1925, in Ivi, p. 434.
Giovanni Giolitti alla figlia Enrichetta, 6 aprile 1926, in Ivi, p. 440.